Giovani, devianza e controllo: la sfida delle Gang e la risposta sociale

Una tesi critica verso una semplificazione fatta di allarmismo e risposte repressive

 

Qualche settimana fa abbiamo pubblicato un’intervista a Carlotta Bocchio che ci ha raccontato il suo percorso di laurea in Scienze Politiche e Sociali all’Università di Torino, con un’attenzione particolare a criminologia. Mi aveva incuriosito molto il titolo della sua tesi in sociologia della devianza: “Giovani, devianza e controllo: la sfida delle Gang e la risposta sociale”. Io, ma so anche molti studenti, seguo con passione i casi giudiziari, le indagini e il loro sviluppo, quindi ho pensato di farle ancora qualche domanda. 

Carlotta Tesi intera

Cosa ti ha spinto a scegliere questo tema per la tua tesi?

Ho scelto di affrontare questo tema perché la devianza giovanile rappresenta oggi un

argomento di grande rilevanza pubblica, spesso però affrontato dai media in modo

superficiale o allarmistico. Leggendo notizie sulle cosiddette “babygang” (nonostante per le bande italiane non sia il termine adeguato), ho notato come la narrazione predominante tenda a generare veri e propri "panici morali", raffigurando i giovani come una minaccia e senza approfondire il contesto sociale da cui emergono questi episodi.

La mia tesi nasce quindi dalla volontà di restituire complessità a questo fenomeno,

considerando non solo i comportamenti devianti, ma anche i fattori sociali, culturali e

istituzionali che vi contribuiscono, analizzando nel contempo le modalità con cui lo Stato risponde a queste dinamiche.

Ci sono stati particolari episodi di cui hai sentito parlare, o ti sei informata, che ti hanno

spinta a trattare questo tema?

Tra ottobre 2025 e maggio ho partecipato a un master in criminologia investigativa, scienze forensi e criminal profiling con la dottoressa Bruzzone. Durante il corso, sono stati affrontati diversi argomenti e sono stati trattati diversi casi, tra i quali alcuni riguardanti la criminalità e la devianza giovanile, tra i quali uno in particolare ha avuto un’importante influenza sul mio percorso di studio, nonché il caso di Caivano, in cui due ragazzine sono state vittime di abusi da parte di un gruppo di ragazzi. Questo episodio ha avuto un forte impatto mediatico, culminando nell'approvazione della cosiddetta legge Caivano.

Attraverso l’analisi di questo caso e delle conseguenti risposte politiche, ho compreso

quanto sia cruciale valutare gli effetti delle misure repressive introdotte sotto la spinta

dell’emotività e dell’attenzione mediatica.

Avrei una curiosità, ci sono dei particolari fattori che portano un giovane ad avere

comportamenti devianti? Tra questi fattori, la famiglia, la scuola e il quartiere giocano un ruolo importante?

Nella mia tesi analizzo come la devianza giovanile sia il risultato di una combinazione

complessa di fattori: sociali, familiari, territoriali e culturali. Nello specifico a livello sociale la marginalità, povertà educativa e carenza di opportunità contribuiscono alla devianza di giovani soggetti, a livello familiare la mancanza di controllo genitoriale, le relazioni fragili e i contesti familiari disfunzionali uniti ai bisogni di appartenenza. Infine, il quartiere in cui nasce e cresce gioca un ruolo cruciale nello sviluppo della carriera deviante di un giovane; a livello territoriale esistono aree segnate da disorganizzazione sociale, fenomeno già studiato dalla Scuola di Chicago.

L'idea centrale è che la devianza non sia mai il risultato di una caratteristica individuale vista come "patologica", ma piuttosto una reazione a condizioni di vita limitanti o frustranti.

Anche l’aspetto psicologico è un particolare che mi interessa parecchio, perciò quali tratti psicologici ricorrono più frequentemente nei minori coinvolti in queste attività criminali?

Nel mio elaborato non ho approfondito l'aspetto clinico, ma emergono con chiarezza alcune caratteristiche ricorrenti nelle dinamiche delle bande giovanili, tra cui: un forte bisogno di appartenenza, la ricerca di riconoscimento e identità, l'impulsività accompagnata dalla difficoltà nel prevedere le conseguenze, rabbia e frustrazione derivanti da esperienze di esclusione, una propensione verso una soddisfazione di tipo edonistica immediata, ossia la ricerca di piaceri istantanei senza adeguata valutazione di costi e benefici, e un senso di onnipotenza alimentato dalle dinamiche di gruppo. Questi aspetti non devono essere considerati come patologie, ma piuttosto come risposte adattive a condizioni di marginalità e disagio.

Esiste una gerarchia all’interno di un’attività criminale di minori dal punto di vista

psicologico, ovvero c’è un “capo”?

Dall'analisi della letteratura emerge che nelle bande giovanili è possibile individuare una sorta di struttura interna, nonostante non sia necessaria la figura di un capo per identificare una banda giovanile. Di frequente, si riscontrano che ragazzi più grandi che rivestono ruoli di leadership, mentre i membri più giovani o vulnerabili svolgono compiti subordinati; i legami generalmente sono fondati su lealtà, rispetto e un'identità comune. Sebbene questa gerarchia non sia rigida come nelle organizzazioni criminali adulte, essa è presente e gioca un ruolo significativo nel mantenere la coesione all'interno del gruppo.

Quali effetti generano le babygang sulla comunità locale?

Gli effetti principali emersi dall'analisi riguardano un incremento della percezione di

insicurezza, spesso influenzata dal contributo dei media, l’acuirsi di tensioni sociali e la

stigmatizzazione dei giovani, anche di quelli che non mostrano comportamenti devianti. Il consolidamento di stigma e di stereotipi negativi che alimentano il divario tra generazioni, in particolare tra giovani e adulti; c’è poi la tendenza che spinge verso richieste di politiche repressive, che si rivelano più simboliche che realmente risolutive. Vale la pena sottolineare che, in molte occasioni, la "minaccia" percepita si rivela più una costruzione mediatica che un dato concreto, come evidenziato dall'assenza di statistiche ufficiali relative alla presenza di bande. Gli impatti generati dalle bande sul territorio sono profondamente incisivi per la comunità, poiché le loro azioni appaiono in larga parte immotivate, con atti di violenza gratuita che colpiscono soggetti vulnerabili come coetanei o anziani, ma spesso anche spazi pubblici come piazze, muri cittadini e infrastrutture, che diventano bersaglio di atti vandalici.

Infine, secondo te, esiste un modo per prevenire l’entrata di questi giovani nel mondo

criminale? E se sì, reputi gli attuali strumenti di prevenzione efficaci?

Nella mia tesi sostengo che la prevenzione della devianza sia una strada percorribile, ma richiede un approccio diverso rispetto a quello puramente repressivo. È fondamentale rafforzare il ruolo educativo della scuola e della famiglia, creare opportunità concrete nei territori più vulnerabili, promuovere interventi educativi continuativi piuttosto che azioni sporadiche o emergenziali. Inoltre, programmi alternativi come la messa alla prova, l'affidamento in comunità e percorsi di reinserimento si dimostrano nettamente più efficaci della detenzione nel ridurre il rischio di recidiva.

Gli strumenti attualmente in uso, però, non possono dirsi del tutto adeguati. La legge

Caivano, ad esempio, ha comportato un aumento degli ingressi nei carceri minorili e

l'abbassamento dell'età per il trasferimento nei penitenziari per adulti, con effetti opposti rispetto agli obiettivi dichiarati. Puntare esclusivamente sulla repressione non solo non risolve il problema della devianza, ma addirittura rischia di radicarlo.

Ringraziamo Carlotta per la sua disponibilità a rispondere alle domande su un tema che interessa molti di noi.

Sara B.

Ultima revisione il 13-12-2025