Il terzo lunedì del mese di gennaio è chiamato “blue monday”, il giorno più triste dell’anno perché, secondo alcuni studi dello psicologo Cliff Arnall, il cervello delle persone realizza inconsciamente che è finito il periodo natalizio e che i mesi successivi saranno caratterizzati dalla quasi totale assenza di giorni festivi.
Essendo una teoria priva di fondamento scientifico è stata messa in discussione da alcuni neuroscienziati ma, indipendentemente dalla sua attendibilità, è comunque confortante pensare che ci sia una giornata dedicata a un’emozione che, a mio parere, è sempre stata un tabù per la nostra società. Non sento mai parlare abbastanza dell’importanza della tristezza, e questo mi rincresce.
La tristezza ci ricorda che non siamo nient’altro che esseri mortali e fragili, e questo sembra non piacere a molti. In quanto persona estremamente sensibile ho sempre dato molta importanza alle emozioni, soprattutto perché, per l’intensità con cui le percepisco, portano inevitabilmente conseguenze in ogni ambito della mia vita. Ma nel momento in cui sono entrata in contatto con il mondo esterno ho iniziato a sentirmi fuori luogo, addirittura in errore per quello che provavo e per come lo provavo. Mi è stato insegnato a reprimere le emozioni negative perché se non lo avessi fatto “non sarei mai riuscita a sopravvivere nella realtà oltre i banchi di scuola”.
“Non piangere, piangere significa arrendersi” è solo una delle tante frasi aberranti che mi sono rimaste impresse in questi anni da studentessa di liceo e che mi hanno generato tanti quesiti e tanta rabbia. Se le emozioni sono innate nell’uomo, se sono un prodotto della natura, perché cercare di far finta che non esistano? Mi chiedo in continuazione perché creiamo consapevolmente o inconsapevolmente uomini frustrati e depressi, che cercano di reprimere quello che provano fallendo miseramente. O perché siamo indirizzati fin da piccoli a verso un modello perfetto di essere umano, pur sapendo che non riusciremo mai a raggiungerlo, e soprattutto, perchè in questo modello non sono accettate le debolezze. Perchè non posso piangere in classe se prendo un brutto voto se mi hanno sempre insegnato che un 5 è un fallimento, un problema, un numero che stabilirà se da grande sarò una plurimilionaria invidiata da molti o una di quei poveri reietti compatiti dalla società? Mi fermo spesso a pensare a come sarebbe il mondo se non cercassimo di nasconderci, se le influencer, gli insegnanti, gli allenatori, smettessero di promuovere la cultura dell’uomo invincibile e iniziassero ad affrontare i loro demoni interiori che creano loro tanta insopportabile tristezza. Quello sarebbe il vero coraggio, guardare le proprie debolezze allo specchio e decidere di accettarle. “Accettarle” non significa necessariamente cadere in depressione, restare ad osservare quegli aspetti ambigui di noi stessi finchè ci risucchiano e prendono il controllo della nostra testa. Significa cessare di nascondersi dalla crudele realtà che siamo solo uomini mortali e fragili. L’aspetto positivo della tristezza è che, se affrontata nel modo giusto, può portare a grandi cambiamenti positivi. E’ questo che a mio parere la scuola dovrebbe insegnare ai ragazzi. Nel mio mondo ideale (chiaramente irrealizzabile) i ragazzi non si vergognano di mostrare le loro emozioni per paura di perdere in questo modo la loro virilità, le persone che amo si sentono libere di piangere davanti a me quando ne hanno bisogno e non si scusano se succede. Nel mio mondo ideale non sarei più la ragazza “troppo emotiva” descritta da alcuni insegnanti che di me sanno poco e nulla, sarei solo una ragazza emotiva come tutte le altre, e questo sarebbe normale.
Alice R