Pubblichiamo con piacere il testo vincitore del concorso premiato ieri. Come richiesto dal bando, Sebastiano sviluppa una riflessione a partire dalla lettura del testo di Liliana Segre “Ho scelto la vita. La mia ultima testimonianza pubblica sulla Shoah”.
Quando si tratta il tema tanto delicato e allo stesso tempo orribile della Shoah, la maggior parte di noi prova un sentimento di disgusto, di pietà e anche di rabbia. Il disgusto verso l’avvenimento in sé, la pietà nei confronti di chi è stato coinvolto e la rabbia contro chi ha collaborato o non ha fatto nulla per fermarlo. Ci si chiede: perché? Perché è successo tutto questo? Perché nessuno ha fatto nulla?
È lodevole ed è un sollievo sapere che qualcuno abbia così tanta sensibilità, ma non dobbiamo dare nulla per scontato.
Prima di condannare una qualsiasi azione, da quella più apparentemente insignificante, come non salutare, a quella peggiore, come uccidere un uomo o essere indifferenti di fronte a crimini atroci, bisogna essere consapevoli che potremmo compiere benissimo anche noi quelle stesse azioni. Dobbiamo avere l’onestà intellettuale e morale di dire a noi stessi che anche noi siamo in grado di uccidere un uomo, di rubare, di essere indifferenti, di mentire, e che non importa se fino ad ora non lo abbiamo mai fatto: un re può diventare schiavo da un giorno all’altro, e così un uomo può passare in pochi secondi da essere un angelo ad essere un diavolo.
Noi esseri umani possiamo fare sia il bene che il male, ma il secondo è molto più alla portata di mano. Fare del male ad altre persone è semplice, più di quanto si possa immaginare: un uomo che sta con una donna fa soffrire (a volte involontariamente) una donna che è innamorata dell’uomo, ma che non può avere una relazione con lui, e viceversa (o in qualsiasi altra situazione simile); offrire una sigaretta porta danni per chi la fumerà; una risposta o uno sguardo dato nel modo sbagliato portano dolore; una risata fraintesa può ferire… Altrettanto si potrebbe scrivere delle azioni buone, ovvero che un saluto ben dato o un sorriso possono offrire benessere ad un’altra persona, ma guardandoci intorno e vedendo il mondo in cui viviamo scopriamo che non è così immediato.
Invidia, gelosia, avidità, odio, volontà, desiderio… Questo è il mondo (o ciò che sembra ad uno sguardo approfondito), e l’amore e la gioia sembrano tesori rari e introvabili, che dobbiamo imparare a portare alla luce (certi umani hanno tentato di farlo, ma non sempre hanno fatto una buona fine – scrivo “umani” e non “persone” perché l’etimologia di quest’ultima parola porta al termine “maschera”-)… Pochi individui possono rovinare il mondo, ma tanti, anche se si mettono d’impegno, difficilmente lo miglioreranno (questo non vuol dire però arrendersi).
Nel momento in cui si prende coscienza che una mattina noi stessi potremmo essere le future persone che non faranno nulla di fronte ad un crimine che avverrà sotto la nostra casa (o che faranno il crimine stesso), allora si può denunciare un’azione.
Nell’esatto istante in cui comprendiamo che in potenza siamo più mostri che salvatori (fino ad ora), allora si può condannare un crimine.
È semplice diventare ciò che non vogliamo essere, e dobbiamo stare attenti, perché bastano condizioni meno favorevoli (o, in certi casi, più favorevoli) per diventare proprio ciò che detestiamo. Forse (sperando che sia e rimanga così) non ci siamo ancora trovati in condizioni di ristrettezze economiche o di indigenza, in momenti in cui si farebbe quasi ogni cosa pur di risolvere quel problema… E se la soluzione a quel problema dovesse essere solo dire alle forze dell’ordine che c’è un ebreo nascosto nella vicina casa abbandonata? Ricevere delle lire o dei marchi solo per una frase… Perché una persona non dovrebbe farlo, per far mangiare la propria famiglia, anche se a scapito di un’altra? Non erano forse così quei «zelanti fascisti» di cui parla Liliana Segre nel suo libro, che aiutarono i nazisti a caricare come merci gli ebrei al Binario 21? Non erano forse così anche i medici e le ostetriche che collaborarono al programma nazista Aktion T4?
E perché il popolo tedesco del primo dopoguerra, dopo anni di povertà, inflazione, disoccupazione e sforzi senza fine, avrebbe dovuto dire «No, non è vero» quando un uomo baffuto diceva loro che erano una razza superiore? Noi non diciamo sempre di no ai complimenti.
Inoltre, è un caso se nell’elettorato hitleriano all’inizio della sua ascesa ci fossero sbandati e disoccupati, insieme alle élite degli industriali? Non potevano auspicare un cambiamento, vedendolo in quell’artista baffuto rifiutato dall’Accademia delle Belle Arti di Vienna e poi in quel nanetto zoppo di Goebbels?
Attenzione, con queste domande scandalose non voglio giustificare nulla (sono domande retoriche), e non ho nemmeno intenzione di fare una semplificazione della storia tedesca dal trattato di Versailles fino alla seconda guerra mondiale, ma è solo una breve riflessione su come sia facile scendere (e scadere) in terribili azioni. Poi, tra italiani e tedeschi, c’era chi credeva davvero all’ ideologia fascista e nazista (Liliana Segre nel suo libro parla persino di ebrei fascisti – suo zio Amedeo, fratello maggiore di suo padre Alberto, aderì al fascismo – e se ci pensiamo bene al rogo dei libri di Berlino del 1933, ci andarono giovani che erano convinti di quello che stavano facendo – per non scrivere delle manifestazioni di entusiasmo nelle piazze d’Europa allo scoppio della prima guerra mondiale: non pensiamo che fossero dei mostri sanguinari, dediti a culti segreti, perché erano persone normali, come tutti noi (Hannah Arendt ce lo insegna).
Ancora oggi si sentono delle persone (che possono essere anche nostri parenti o amici) dire di dover «rendere pan per focaccia» oppure «pagare con la stessa moneta». Certo, frasi dell’età di Hammurabi, eppure sono dette o pensate (con particolare convinzione tra l’altro) da persone che salutiamo ogni giorno (o frasi che noi ogni tanto possiamo pensare). Spesso il passo per l’inferno è breve. Che poi possa essere anche come si dice, ovvero che «La via per l’inferno è lastricata da buone intenzioni», ma nel nazismo o nel fascismo di buone intenzioni non esistevano (ce n’erano di più nella parabola della Russia dalla rivoluzione del 1917, travisata dalla dittatura staliniana).
Vogliamo citare la rivoluzione francese? Dittatura Giacobina e Robespierre? Quanto tempo impiega un buon ideale (il nostro volere il bene, la giustizia, la solidarietà,…) a sporcarsi di sangue?
E chi sono, nella storia, nel mondo, i veri criminali? Quando Liliana descrive la sua deportazione dal carcere di San Vittore, vi erano dei detenuti, dei criminali (secondo la legge), che hanno dimostrato più umanità di chi era fuori dal carcere e che commetteva crimini contro l’umanità, che però (secondo la legge del tempo) non erano crimini. Chi erano quindi i criminali? Chi era dentro o chi era fuori dal carcere? La domanda è retorica, chiaramente, eppure permette di riflettere sul fatto che in fondo le parti, i due estremi, non siano mai così netti, che chi viene considerato il buono, non sempre lo è (I soldati dell’Armata Rossa, anche se liberarono il 27 gennaio del ’45 il campo di concentramento di Auschwitz, si macchiarono di stupri, massacri e saccheggi durante la Guerra; gli americani, seppur tra gli Alleati vincitori e difensori della democrazia, sganciarono comunque Little Boy e Fat man) e viceversa, anche se con i nazisti o i fascisti è difficile trovare qualcosa di veramente buono (se non si è fascisti o nazisti).
Parlando dell’ Olocausto non si può non soffermarsi sulle persone che sono state trattate come bestie. Caratteristico l’allestimento dei binari su cui venivano caricati gli esseri umani: paglia a terra (tipico degli animali in una stalla) e un secchio nel quale fare i bisogni. Un secchio che ricorda molto anche Primo Levi, quando in Se questo è un uomo spiega che il brodo dato agli internati (che non dava energie, perché ci poteva essere pochissimo d’altro di sostanzioso) stimolava molto la vescica e questo portava in ogni blocco a dover uscire spesso, e anche più volte, di notte (al freddo), per rovesciare il secchio pieno di urina. Lì non c’era bisogno di cambiare secchio: ad uno scossone del treno tutto fuoriusciva, ed ecco che era di nuovo vuoto.
Che poi, trattati come animali fino ad un certo punto, perché agli animali almeno un po’ di acqua viene data; a Liliana e agli altri nei vagoni merci no, o quando veniva data, non era nemmeno il minimo necessario per la sopravvivenza.
Senza tralasciare l’essere spogliati (o ancor peggio spogliate) all’arrivo ad Auschwitz. Donne, adolescenti, bambine, al freddo, impaurite, dopo essere state separate (per sempre) dai propri cari, guardate da uomini che le schernivano o se la ridevano, per un motivo o per l’altro (come se in un campo di sterminio la risata fosse una cosa spontanea). Uomini sconosciuti che le vedevano nude, e forse un pensierino sulle donne un po’ più grandi (prima che diventassero degli scheletri ambulanti) se lo facevano.
L’idea che a milioni di bambini sia stata sottratta l’infanzia, la famiglia, o a genitori strappati i figli, è terribile. È straziante la scena raccontata dalla Senatrice quando si trovava vicino alla stufa dopo che le avevano trovato un pidocchio e il suo incontro con la bambina cecoslovacca/ucraina, entrambe vittime di un mondo precipitato in qualcosa di inspiegabile ed indescrivibile (nel senso negativo). Innocenti sognatrici profanate nel loro intimo e gettate in un luogo immondo, in un non-mondo.
Sempre sulla perdita dell’umanità, una costante all’interno dei lager era la disumanizzazione dei rapporti, anima e fulcro della vita. Disumanizzazione attraverso vari aspetti: mancanza di fiducia nei confronti del prossimo, oppure, come viene ben descritto nel libro di Liliana, attraverso la percezione della paura da parte dei detenuti di potersi affezionare ad un’altra persona, che «muore per un sì o per un no». L’idea di legarsi ad altri individui, dopo aver perso i propri cari, diventa difficile e strangolante, nonostante si senta il bisogno, all’Inferno, di avere qualcuno accanto.
Lavori disumani e disumanizzanti, come trasportare cadaveri o sotterrarli. Sgobbare e tribolare giorni interi, fino a perdere la propria umanità: diventare egoisti, scaltri, cattivi… Tutto ciò che non si voleva essere, con l’unica speranza di uscire da quella Geenna, nella quale si erano ritrovati senza un motivo reale.
Liliana spiega nel dettaglio la sua metamorfosi in negativo, dal non salutare la sua compagna di lavoro Janine prima che quest’ultima venisse condannata alla camera a gas, al mangiare carne di cavallo morto (lei amava i cavalli), fino al pensiero di uccidere un uomo. Il processo dialettico di Liliana, che dall’idea in sé (tesi – la sua bontà infantile intatta e pura, Assoluta-), è uscita fuori da sé per concretizzarsi nel male (antitesi – la metamorfosi in negativo: sparizione dell’empatia, mangiare carne di cavallo e pensare di uccidere un uomo, quando lei stessa si è considerata «orribile»-) per poi ritornare in sé e per sé (sintesi – la scelta di non uccidere il soldato tedesco e quindi la scelta della vita, o viceversa-) l’ha resa migliore di prima, le ha permesso di elevarsi ad un nuovo momento dell’umanità: la scelta della vita e di non diventare più ciò che non voleva essere. La conoscenza del dolore, della separazione, del negativo, sembra perciò nella storia di Liliana necessaria per trasformarsi e mutare verso un nuovo stadio dell’essere umano. Il prezzo da pagare, però, ovviamente è alto e caro e Liliana avrebbe preferito una vita normale a tutto questo. Meglio un’infanzia ed una vita normale che il nuovo stadio dell’umanità, che non coincide affatto con la felicità, perché è solo una presa di coscienza, una nuova consapevolezza, che non porta nulla di buono.
Vi sono stati però altri esempi di umanità nella storia dei lager.
Witold Pilecki, fu un militare polacco che si fece arrestare nel 1940 dalla Gestapo per essere internato ed organizzare una resistenza ad Auschwitz, oltre che raccogliere informazioni sulle atrocità naziste. Riuscì a scappare e condivise i suoi rapporti, che però inizialmente non furono creduti.
Viktor Frankl, neurologo e psichiatra austriaco, internato in diversi campi di concentramento, nei quali intraprese una profonda riflessione sul senso della vita (lì, in quelle condizioni), che lui ha trovato proprio nel momento più basso e terribile della sua esistenza. Arrivò a scrivere: «Poiché l’uomo […] sa che persino quando si trova davanti ad un fatto immodificabile […] egli può dare prova della sua umanità facendo fronte a questa situazione e testimoniare di che cosa è capace l’essere umano» e ancora, «Quello che conta è l’atteggiamento e la disposizione con cui egli accoglie gli inevitabili colpi del destino […] Conquistare a questa vita un senso è concesso e accordato all’uomo fino al suo ultimo respiro». Ecco Sisifo che porta il suo masso, perché «anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo» (Camus).
Non dimentichiamoci di Massimiliano Maria Kolbe, prete polacco che ad Auschwitz si sacrificò al posto di un compagno di blocco quando per un tentativo di fuga di un prigioniero vennero scelte a caso dieci persone da mandare al bunker della fame. Uno tra gli uomini che erano stati scelti scoppiò a piangere perché a casa aveva una famiglia che lo aspettava, e Kolbe si sacrificò al suo posto. Morì dopo due settimane senza praticamente aver mangiato e bevuto per un’iniezione letale da parte degli stessi nazisti.
Questi mirabili esempi di solidarietà e profondità sono disarmanti e fanno pensare a cosa noi avremmo fatto se fossimo stati al loro posto. Tutti noi pensiamo che dovremmo farlo in una situazione del genere, ma non è sempre semplice concretizzare le nostre intenzioni. Questi episodi possono anche far sperare che in fondo in fondo nel mondo, come è scritto nella Bibbia, «La carità non avrà mai fine». Ma i milioni di morti ci sono stati lo stesso.
La domanda comunque rimane: Perché? Per che cosa è successo questo? Per caso? No, non è stato un caso, anzi, era tutto stato studiato nella Conferenza di Wannsee (e ancora prima) alla quale parteciparono anche persone che avevano frequentato l’università (alla faccia di chi pensa che un titolo di studio possa rendere intelligenti o persone migliori), per parlare della soluzione finale degli ebrei. Tutto ciò che ha descritto Liliana (a parte la parte sulle ultime fasi della guerra), quindi le sue fughe, i suoi sentimenti o i non-sentimenti, le torture subite, i lavori forzati e tanto altro, era stato studiato ed organizzato a tavolino. Perché? Perché i tedeschi si sentivano superiori? Perché gli slavi, gli omosessuali, gli ebrei, i disabili erano inferiori? Nessuno era nessuno. Eppure non è stato solo un problema dei tedeschi, perché gli ebrei furono perseguitati e uccisi anche dai croati, dai rumeni, e dagli stessi italiani (non crediamoci innocenti).
E comunque, come descritto perfettamente da Zygmunt Bauman, sociologo e filosofo polacco, l’Olocausto è stato una manifetsazione della modernità e della razionalità umana («con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio, senza amore, senza Cristo», scrive Quasimodo nella poesia Uomo del mio tempo), in tutti i suoi calcoli per aumentare la velocità, la divisione dei ruoli (nella quale ognuno è un ingranaggio di un’enorme macchina di morte che cancella la responsabilità-) e il sistema dell’annientamento delle popolazioni, a cui collaborarono tutti (da chi guidava il treno che portava i condannati alla morte, dalle aziende che finanziarono la costruzione dei campi di concentramento, da chi faceva passare il gas nelle stanze, chi vedeva in strada senza fare nulla i pestaggi nei confronti degli ebrei, degli slavi, dei nemici dell’ideologia nazi-fascista). È stato qualcosa di tutti, dell’Europa intera, anche delle democrazie, che hanno lasciato piede libero ad Hitler per l’annessione dell’Austria, della Boemia, della Moravia, dei Sudeti, del Memelland. È stato un evento opera dell’umanità intera.
Liliana risponde con la parola «Indifferenza». Per lei siamo stati come Caino, che alla domanda di Dio «Dov’è Abele, tuo fratello?», (da notare che nella Bibbia Dio è onnisciente eppure la sua domanda non è casuale o un errore) risponde (quando aveva già ucciso Abele): «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?».
Siamo dunque noi i custodi dei nostri fratelli? Sì, lo siamo.
Ci siamo nascosti alla ricerca del potere, del dominio, della ricchezza, e non siamo più in grado di rispondere, o meglio, non sentiamo più la domanda che Dio rivolge ad Adamo (e quindi a tutti noi) quando lui si nasconde dopo aver peccato, «Dove sei?», e noi non abbiamo il coraggio di ammettere : «Mi sono nascosto». Non abbiamo ancora compreso a pieno che «Non solo di pane vivrà l’uomo».
Per concludere, credo che forse sia meglio non dare risposta alla domanda sul motivo che ha portato a quello che è successo, e non per lasciarla da parte, piuttosto perché possa riecheggiare tra le generazioni ed anche (e soprattutto) perché in fondo potrebbe spaventarci la banalità e la mefistofelica verità dietro tutto questo.
Liliana è morta ad Auschwitz, e con lei tutte le persone che ci sono state. Non si può risorgere da quel trauma, non si può nemmeno sopravvivere. Abate Galiani scriveva: «L’importante non è guarire ma vivere con i propri mali», solo che da certi mali non si può proprio guarire, a prescindere dalla nostra volontà (e Primo Levi e Paul Celan, ad esempio, ce lo hanno detto attraverso il loro ultimo gesto).
Certo, è nobile e confortevole sapere che Liliana riesca ancora a sperare, a sperare in un futuro migliore e che l’Amore e lo studio le abbiano dato la forza di andare avanti nonostante tutto.
Tuttavia Liliana è morta ad Auschwitz, anche se ha scelto la Vita.
«Se vuoi un’immagine del futuro, immagina uno stivale che calpesta un volto umano, per sempre» (O’Brien, del romanzo 1984)
Che non si ripeta mai più nulla del genere…
«Va’, e non peccare più», ci è stato detto, alla nostra nascita.
Shemà
Sebastiano Paglia