Chi era Giuseppe Weinberg

Di fronte al disegno nazista di cancellare dalla storia il popolo ebraico quello di fare memoria è un dovere, ma a volte ricostruire le storie di chi ha terminato la sua vita in un campo di concentramento è difficile.

L’anno scorso il Comune di Cossato aveva proposto di riflettere sulle deportazioni nel Biellese.

Anna Colpo, una delle vincitrici del concorso, ha cercato di supplire con l’immaginazione al vuoto di informazioni su un nome inciso in una lapide. Ecco la sua riflessione.

 

Chi è Giuseppe Weinberg?

Ce l’ho davanti agli occhi, ve lo descrivo: è vestito in giacca e cravatta, i suoi capelli fini sono pettinati all’indietro e i lineamenti sono ben definiti. Il suo è uno sguardo di chi ne ha viste tante. È posato su di me, ma so che non mi sta guardando.

Il suo nome è inciso al Piazzo, in una strada in particolare, ma non ne identifica la via, non appare su un cartello bianco. Le sue sedici lettere sono incise sulla pietra: è il memoriale. Di lui rimangono il nome su una stele e una vecchia foto ingiallita scattata prima che fosse deportato ad Auschwitz, ultimo luogo su cui posò lo sguardo. Luogo, questo, che vide anche fin troppo bene.

“Ecco le lacrime degli oppressi che non conoscono consolatore”. La frase è incisa nella roccia sotto la stella di David, da molti chiamata anche lo Scudo, che protegge e ricorda non solo l’anima di Giuseppe Weinberg, ma anche quelle di altre nove persone. Quella di Salomone Tedeschi, per esempio, cui nome sembra alludere ad un ossimoro di poco gusto, avendo accostato il nome del terzo re d’Israele conosciuto come “il pacifico” con il nome di un popolo che avrebbe fatto conoscere il dolore e la crudeltà al mondo intero.

La famiglia Ovazza Vitale conta otto persone, 101 lettere, sulla lastra appesa ai muri del vicolo del Bellone. La loro storia s’intreccia con quella di una donna, Carlotta Noemi Rizzetto, che aiutò una parte della famiglia a fuggire dalle persecuzioni. Quella signora, che al tempo lavorava come governante presso la casa Vitale, cambiò i dati sui suoi documenti pur di aiutare il piccolo Bruno a varcare il confine svizzero e a ricongiungersi con la famiglia. Si finse ebrea quando il solo esserlo significava deportazione, un rischio che non pensò a prendersi due volte. Oggi le è riconosciuto l’appellativo di Giusta fra le Nazioni, riservato a coloro che aiutarono il popolo ebraico negli anni dello sterminio.

Infine, c’è l’ultima anima, Giuseppe Weinberg.

Nasce a Biella il 17 agosto 1905, è un leone. È il figlio di Michele Weinberg e Olimpia Ghiron. Il suo è il nome che compare più spesso su internet, ma allo stesso tempo è la persona di cui si trovano meno informazioni.

Chi è Giuseppe Weinberg?

Che lavoro faceva? Cosa amava fare? Quali erano le sue passioni? Si sa talmente poco di lui che online si trova una pagina con scritto: Giuseppe Weinberg, in caso abbiate informazioni che lo riguardino, scrivete alla seguente mail.

Nonostante il tempo, non è stato ancora possibile ricostruire la sua storia. Un nome, una foto, tre date: quella di nascita, quella di deportazione, il 15 giugno 1944 e quella di morte, il 14 novembre dello stesso anno, ecco cosa rimane. Giuseppe Weinberg è un ebreo… ma è prima di tutto un uomo, un figlio, un amico, un biellese, un leone.

Gli darò io una vita, anche se solo sulla carta scriverò la sua storia e spero che possa vivere attraverso le mie parole, sentirsi libero di essere semplicemente Giuseppe Weinberg.

Me lo immagino da piccolo camminare in via Italia con i suoi amici, sgattaiolare via qualche volta da casa per andare a fare il bagno al Gorgomoro. Penso alla sua prima fidanzata, a quella ragazza che gli fece conoscere il significato della parola “amore” e che aprì quei suoi occhi sagaci al resto del mondo.

Può darsi che fosse affasciato dal mare, ma venerava la montagna come una vecchia saggia che nasconde molti segreti e dalla quale si deve andare per ritrovare se stessi.

Non mi stupirei se avesse sognato di lavorare nell’ambito della moda. In quegli anni, molto più che ora, il Biellese era conosciuto per i tessuti di qualità e molte famiglie ebree erano coinvolte nel commercio di questi. Chissà, magari invece desiderava fare tutt’altro: diventare un insegnante o piantare fiori, un modo per ricordarsi che c’è vita intorno a lui e che questa va avanti.

Camminando nelle strade del Piazzo, vicino alla Sinagoga, vedo la sua ombra, percepisco il suo ricordo. A volte è da solo e sorride, altre invece è in compagnia, con la sua famiglia. Capita che legga di tanto in tanto, romanzi storici e saggistica novecentesca. Si siede appoggiandosi alla parete che accoglie le sue sedici lettere, sotto lo Scudo, e tiene tra i denti un filo di grano, come si faceva una volta.

Ora ce l’ho davanti: è vestito in giacca e cravatta, i suoi capelli fini sono pettinati all’indietro e i lineamenti sono ben definiti. Il suo è uno sguardo di chi ne ha viste tante e il suo sorriso e quello di chi ha vinto grandi battaglie. I suoi occhi sono posati su di me, ma so che ora, invece, mi sta guardando anche lui.

Anna Colpo