Un tema assegnato in classe chiedeva agli studenti, a partire dalle considerazioni di due scrittori dopo lo sbarco sulla luna sul tema del modo con cui l’Universo? La Scienza ci ha tolto la capacità di fare poesia, di stupirci del suo mistero?  Oggi e domani pubblichiamo le risposte di due studenti a questa domanda.

La Luna, questa conosciuta. Eh sì, il modo in cui l’umanità guarda verso il proprio satellite è decisamente cambiato nel corso dell’ultimo secolo. Per millenni, uomini di tutte le epoche hanno alzato la testa verso il cielo, hanno visto un disco bianco, giallo, a volte persino rosso e si sono posti delle domande.

-‘Che cos’è la Luna?’

-‘Deve essere un disco appoggiato sul cielo!’

-‘No, secondo me è una sfera appesa nel vuoto!’

-‘E chi la ha messa lì?’

-‘Sono stati gli dèi, non lo sai?’

-‘E perché mai lo hanno fatto?’                                                                                                                               (…)

Che cos’è la Luna, però, oggi lo sappiamo. Secoli di scoperte scientifiche, a partire da Galileo, ci hanno permesso di comprendere che la Luna è null’altro che un’immensa sfera rocciosa, forse staccatasi dalla Terra in seguito a una catastrofica collisione tra pianeti avvenuta miliardi di anni fa, che orbita attorno a noi esattamente nello stesso modo in cui noi orbitiamo attorno al Sole.

La Luna per l’uomo non ha più misteri. L’abbiamo guardata da vicino e sappiamo di che cosa è fatta, ne abbiamo misurato la massa, l’abbiamo toccata con le sonde e infine (sostenitori delle teorie del Complotto permettendo) ci abbiamo persino camminato sopra.

‘Tutto molto bello – qualcuno potrà ribattere – ma dov’è finita la Luna dei poeti e dei filosofi? Dove potremo guardare, ora, per volare con le ali dell’immaginazione?’.

Questa domanda ha sicuramente le proprie ragioni di esistere. A mio parere, però, coloro che se la pongono stanno affrontando la questione da un punto di vista errato e, forse, non stanno provando ed essere poeti fino in fondo.

Per illustrare in modo migliore ciò che intendo dire, mi piacerebbe partire proprio dalla poesia e in particolare da Leopardi, uno dei grandi della letteratura italiana. Il poeta di Recanati è noto come l’autore dell’Infinito, come colui che proprio l’immaginazione pose sopra a ogni cosa, essendo essa per lui l’unica via di fuga da una realtà nella quale era condannato alla sofferenza.

Tutto ciò porterebbe a pensare che, se Leopardi fosse consapevole di ciò che l’uomo moderno ha fatto alla Luna, ne rimarrebbe inorridito: cosa resterebbe allora a uno come lui, che sognava guardando il cielo per non girarsi verso una Terra che per sua sfortuna a lui non fu lieve?

Eppure, se si analizza più approfonditamente l’opera leopardiana, è facile giungere alla conclusione che, in realtà, probabilmente il poeta non sarebbe disturbato dalle scoperte scientifiche dell’ultimo secolo: anzi, forse ne sarebbe persino contento. D’altronde, non che il recanatese si rifiutasse di analizzare la realtà: al contrario, nella villa della campagna marchigiana dove viveva, suo malgrado, in reclusione aveva probabilmente passato intere notti a riflettere sulle ragioni per le quali essa era quella che era, le stesse ragioni che poi nel corso della sua vita avrebbe addotto a causa delle proprie sofferenze.

Tali ragionamenti, come oggi sappiamo dall’analisi delle sue opere, lo avevano condotto verso un materialismo spinto ed ateo, nel quale la natura null’altro era che un cieco meccanismo sospinto da cause ben superiori alle semplici necessità umane. Insomma, un pensiero che, se analizzato, non può fare a meno di ricordare molto da vicino la visione del mondo che la scienza ha donato all’uomo contemporaneo.

Eppure, tale visione non fermò Leopardi dallo scrivere alcuni dei versi più belli che la letteratura italiana sia stata in grado di donare all’umanità. Quando scrisse l’Infinito, penso che il poeta marchigiano fosse ben consapevole di cosa ci fosse in realtà negli interminati spazi al di là della siepe che stava contemplando dal colle sul quale abitava. O ancora, nel comporre Alla Luna, credete forse che Leopardi non fosse consapevole che il disco che stava osservando fosse semplicemente una palla di roccia inanimata? Ricordo che Newton visse più di un secolo prima dell’epoca del Romanticismo leopardiano.

La realtà è che l’Infinito pensando al quale il poeta italiano scrutava l’orizzonte non è certo lo spazio fisico tra la Terra e la Luna, né la distesa d’aria che intercorreva tra la cima del colle di Recanati e le onde del mare Adriatico, ma qualcosa di più profondo. L’Infinito leopardiano, più che nella realtà esterna, si trova dentro ciascuno di noi, incastonato nella natura umana: è il desiderio dell’uomo di immaginare ciò che non vede, di pensare a ciò che non è oppure a ciò che sarà, forse, un giorno lontano. E se si può essere sicuri di qualcosa è del fatto che, per quanto la scienza possa progredire, non potrà mai essere in grado di conoscere ogni cosa al punto di privare l’uomo del potere dell’immaginazione. Dopotutto, come anche Italo Calvino ci dice, l’insieme delle conoscenze umane è immenso, ma limitato, mentre quello di ciò che possiamo sognare è, quello sì, un labirinto senza fine. Ed è proprio quello l’Infinito verso cui Leopardi guardava.

Giovanni Tallia