Riceviamo dal prof. Barausse e volentieri pubblichiamo un racconto che ci aiuta a riflettere sul tema della giornata di domani contro la violenza sulle donne.
Ciao papà
Te ne sei andato da poco, con i tuoi 92 anni ben portati ed è già la seconda volta che sento l’esigenza di scriverti.
Qualche giorno fa rientrando dal lavoro sono passato davanti a questa panchina e ho visto che stavano finendo di dipingerla; diventerà un’altra panchina rossa, un altro segno per dire basta alla violenza sulle donne.
E mentre rientravo a casa mi chiedevo da dove nasca in un uomo l’idea di avere il diritto di commettere violenza su una donna.
Ieri sera, a casa, questa storia della panchina e della violenza continuava a ronzarmi in testa e per uno di quei cortocircuiti strani che succedono talvolta nel nostro cervello mi sei venuto in mente tu, anche se non mi hai mai fatto grandi discorsi sul rispetto che bisogna dare alle donne.
Ho aperto una bottiglia di rosso, di quello buono e ne ho riempito un calice, sì proprio come piaceva ogni tanto fare a noi nelle sere d’inverno, sere in cui restavamo a chiacchierare, a ricordare insieme, e tutto mi è sembrato improvvisamente chiaro..
Ho avuto un momento di malinconia perché non eri lì accanto a me, allora ho deciso che avrei preso carta e penna e ti avrei raccontato, avrei comunque condiviso in qualche modo con te i miei pensieri
Voglio ringraziarti papà perché tu quel rispetto me lo ha insegnato giorno dopo giorno senza mai citarlo, senza mai farne una lezione morale e io oggi mi ritrovo un vero e proprio tesoro di valori tra le mani senza essermi accorto di come ci sia arrivato.
Tanti sono i pezzi che metto insieme oggi, abitudini o semplici episodi apparentemente scollegati tra loro ma che oggi fan si che io trovi naturale pensare a una donna, qualunque donna, come a una persona assolutamente equivalente ad un uomo.
Ricordo quando tornavi dal lavoro, stanco e sporco, che ti sedevi a tavola e la mamma ti serviva il primo. Quando terminavi allora eri tu ad alzarti con la mamma che diceva: dai… hai lavorato tutto il giorno, al freddo pure… stai tranquillo un momento.
Ma tutte le volte la tua risposta era la stessa “travajà mi?… e ti? A te avù giurnà dura fia ti, valà!” e le impedivi di alzarsi e ci servivi tutti.
Mi ricordo quando ogni tanto alla domenica arrivavano gli amici e gli uomini rimanevano in salotto dopo pranzo a giocare a carte, ma tu andavi in cucina ad asciugare i piatti, portar fuori l’immondizia, scopare il pavimento. Hai resistito per anni alle loro battute, al “ma anche alla notte comanda lei?” battuta becera che ho capito solo anni più tardi e che non mi ha mai fatto ridere.
Con la stessa calma con cui stavo sorseggiando il vino ho cercato di scandagliare la mia memoria alla ricerca di momenti in cui io ti abbia vissuto come il “padrone” della famiglia.
Non ne ho trovato nemmeno uno!
Mai ho sentito la mamma chiederti di poter spendere dei soldi per acquistare qualcosa per sé o per la casa, di poter uscire per una cena, di poter seguire un corso di qualcosa che le interessava.
Quando ci penso papà…
Son passati più di 50 anni da allora ma tu eri davvero avanti! E io me ne accorgo soltanto oggi.
Soltanto oggi mi accorgo da dove nasca quel fastidio che provo quando alcune amiche dicono “non esco a cena con le amiche perché a lui non fa piacere” “sto cellulare mi fa diventar matta, si blocca sempre, ma aspetto a cambiarlo perché lui dice che non è il momento” “vorrei fare il corso di teatro ma è lo stesso giorno in cui lui ha il calcetto”
Lo stesso fastidio che provo quando vado a cena da amici e i loro figli parlare di parità tra uomo e donna ma lasciare che siano le loro madri a sparecchiare la tavola a fine pranzo mentre loro sono impegnati a comunicare con il resto del mondo.
Posso dire grazie a te se la vedo quella sottile differenza tra una coppia in cui la donna resta un passo indietro e quella in cui due persone camminano a fianco.
Quando le cose tra te e la mamma hanno iniziato ad andare male ho comunque imparato molto. Avete iniziato a litigare per le piccole cose, vi parlavate poco e poi è arrivato il periodo in cui i battibecchi si sono trasformati talvolta in litigate a voce alta.
Io prendevo Roberta che era ancora piccola e la portavo in camera mia a giocare, cercando di proteggerla a mio modo, ma da sopra ascoltavo tutto. Mi faceva male ma non ho mai avuto paura perché tu la mamma non l’hai mai minacciata, mai insultata, nemmeno denigrata.
Erano anni in cui separarsi era strano, insolito e lo era ancor di più se ad andarsene era la donna. Quando lei se ne andò per vivere con un altro uomo fu dura. Per mesi ti ho sentito alzarti nel cuore della notte a guardare la televisione, ti ho visto con la barba incolta e più di una volta seduto sul divano ti ho sorpreso con gli occhi arrossati, persi a fissare il vuoto.
Eppure…
Ricordo quando in uno dei miei momenti di rabbia adolescenziali, in una delle nostre litigate ti urlai “la mamma è una puttana!!”
Fu l’unica volta che ricevetti da te una sberla…
Oddio, chiamarla sberla è come definire uragano la bora di Trieste. Un mezzo ceffone sul viso all’altezza della bocca e con una durezza che non ti avevo mai visto e mai più ti vidi mi guardasti dritto negli occhi. Scandisti queste parole che ricordo ancora a memoria a tanti anni di distanza:
Non ti permettere mai più nella tua vita di dare della puttana a una donna, qualsiasi donna, men che meno a una donna innamorata e soprattutto se quella donna è tua madre. Non esiste ragione o dolore così forte che ti dia il diritto di non rispettare un altro essere umano.
Il dito rivolto verso il mio viso, teso, rigido, restò nell’aria ancora qualche istante prima di ritornare con tutto il braccio lungo i tuoi fianchi.
Serrai le mascelle fino a farmi male e me ne andai in camera.
Lì ti ricoprii di insulti, insulti che mi vergogno ancora oggi solo a pensarli. Come potevi non essere d’accordo con me, come potevi, tu che avevi sofferto, che stavi soffrendo così tanto, non pensare che la mamma che ti aveva abbandonato fosse una puttana? Pensai allora che fossi uno senza coraggio, una sorta di verme, incapace di reagire, che in fondo allora aveva ragione la mamma ad essersene andata.
Non ci parlammo sostanzialmente per quasi un mese e ce ne vollero ancora altri due prima che le cose tornassero abbastanza normali.
Eppure quella sberla ebbe il suo effetto. Anzi più d’uno, a cominciare dal fatto che la parola “puttana” fatico a pronunciarla in qualunque contesto, anche oggi.
Ci vollero ancora anni per me per capire che invece avevi avuto una forza incredibile, che il tuo star male non aveva vinto ed eri tu il più forte. Avresti potuto cercare di soffocare il tuo dolore coprendolo con il dolore altrui, mettendo in cattiva luce la mamma, allontanandoci da lei. Ma tu sapevi che a separarci alla lunga io e Roberta ne avremmo sofferto come ne avrebbe sofferto anche la mamma stessa, e del suo dolore non te ne facevi nulla, non avrebbe lenito il tuo.
Non si può volere il male di una donna che si è amata e questo me lo hai insegnato tu, figlio di una cultura patriarcale in cui la donna contava solo come madre e come massaia. Ma per te non è mai stato così.
Hai avuto coraggio papà, altro che verme! Mi hai insegnato che una donna non è cosa che si possiede, su cui hai dei diritti perché ti rende felice. E’ una persona che puoi amare o disprezzare, addirittura odiare, ma mai, mai pensare di possedere.
La tua storia con la mamma non è stata una storia “a lieto fine”, una bella fiaba in cui tutti vissero felici e contenti, ma oggi mi accorgo che è stata comunque una storia che vale la pena di raccontare e di ascoltare perché al suo interno puoi trovare scritto in mille modi diversi che
Non esiste ragione o dolore così forte che ti dia il diritto di non rispettare un altro essere umano.
AB